lunedì 2 novembre 2015

C'era una volta Palazzo Montagna …      
                     
(di Margherita Biondo)

 “C’era una volta Palazzo Montagna” non è la formula con cui solitamente iniziano le favole ma la visione poetica che colpisce lo sguardo di chi si trova a passare davanti alla desolante immagine diroccata  di un sito che prima di diventare un rudere costituiva valore di testimonianza non solo per l’architettura ma anche per la storia sociale, la memoria del paesaggio, del territorio e dell’evoluzione urbanistica di Porto Empedocle. Come spesso accade i poeti vedono più lontano di quanto essi stessi immaginino e l’immagine richiama storie di illusioni e verità rovesciate che si limitano a imbarazzare il pensiero con la loro caratteristica essenziale di essere argomenti sorprendenti perché poco probabili ma molto credibili o molto probabili ma poco credibili. Da un lato emerge il realismo: le percezioni ci forniscono l’immagine di ciò che rimane di un edificio che esiste al di fuori di noi le cui proprietà sono indipendenti dall'osservatore e quindi oggettive. Dall'altro lato domina  l'idealismo: i sensi ci presentano illusioni create da noi, le cui proprietà sono dipendenti dall'osservatore e quindi soggettive per cui i resti dell’antica costruzione diroccata, ormai anacronistica e avulsa dal contesto circostante, destano le stesse sensazioni di chi piange per ricordi infranti e luoghi perduti.


Palazzo Montagna fu costruito nella cittadina marinara, nell’attuale via Lincoln, su progetto dell'architetto saccense Salvatore Gravanti (1785-1867), noto soprattutto per avere realizzato il Palazzo dell'Orologio di Piazza Gallo, sede della Camera di Commercio di Agrigento, nonché “I Quattro Pizzi di Giachery”, forse la più famosa opera di architettura neogotica palermitana. La sua destinazione funzionale lo colloca in quel filone culturale relativo alle trasformazioni del paesaggio per lo sfruttamento del territorio nonché per la conoscenza degli strumenti legati alla produzione e ai manufatti della cosiddetta “archeologia industriale”. L’edificio, di ispirazione neogotica, appartiene alla densa storia ottocentesca dell’architettura in Sicilia e connota la cultura di un’intera epoca nel territorio agrigentino. Come si evidenzia dalle immagini del prospetto, lo stabile fu realizzato con lo stile semplice e sobrio che connota la produzione neogotica, con volumetrie elementari, spesso simmetriche, timidamente arricchite da motivi decorativi. Siamo venuti a conoscenza dei dettagli relativi alla costruzione e alla planimetria dell’edificio attraverso le accurate descrizioni operate dall’Ing. Antonino Margagliotta sulla rivista specializzata “Demetra”. La struttura portante dell’edificio era realizzata in conci di pietra arenaria con cui erano eseguite anche le parti fondamentali di porte e finestre. L’interesse progettuale di Gravanti fu maggiormente rivolto alla facciata ed infatti si adoprò per portare i valori in superficie abolendo l’idea del volume e della profondità ed evidenziando le parti scolpite assecondando la sua propensione pittorica. Lo stabilimento era formato da un unico blocco rettangolare molto allungato. La pianta realizzata da Gravanti rivela una composizione classica mentre in alzato, in tre prospetti, è adottata una decorazione gotica. Dai resti dell’edificio a piano terra si desume ancora che sono stati inseriti alternativamente passaggi voltati a sesto acuto (muniti di ghiere e rosta in ferro battuto) e finestre trilobate con archi inflessi cui corrispondevano, sul primo piano, balconi a petto con vano rettangolare sormontato da cornice ad arco acuto. All’ingresso, nella fascia centrale, era posizionata l’entrata principale con arco acuto sul quale avanzava un portico tripartito che sorreggeva un unico grande balcone. Il passaggio dal piano terra al primo piano era evidenziato da una cornice sostenuta da archetti pensili mentre una seconda cornice delimitava il piano superiore e i piloni a fascio su cui poggiavano le guglie. Queste avanzavano in altezza il muro d’attico e la soprastante merlatura realizzata nella tradizione moresca o veneziana. Oltrepassando l’ingresso si giungeva all’atrio coperto con volta a botte e dal quale si accedeva agli spazi di servizio, ai magazzini e allo scagno. A destra dell’ingresso si sviluppava una scala su tre rampe che conduceva al piano di rappresentanza realizzato in stile neoclassico. Nella distribuzione interna tutti gli ambienti erano ricoperti con volte a schifo e in alcune stanze, sotto lo strato di pittura, si scoprivano decorazioni cromatiche a tempera. La memoria del gotico riaffiorava anche in alcuni vani di passaggio realizzati con archi inflessi a semplici cornici in legno e negli scuri delle imposte che presentavano intagli con motivi gotici. Come si evince dalle descrizioni,  nella realizzazione dell’opera hanno convissuto due linguaggi che sembrerebbero antitetici: quello gotico e quello classico. Tuttavia l’edificio è stato frutto di una particolare condizione culturale dove empirismo e razionalismo hanno interferito e convissuto nelle forme. Gravanti, del resto, rivela una formazione culturale classica mentre la sua produzione neogotica inizia nel 1847. All’epoca Palazzo Montagna era il simbolo di Porto Empedocle in una realtà diversa da quella che conosciamo ma che potremmo immaginare attraverso le descrizioni di Vigata nei racconti storici di Andrea Camilleri dove il territorio empedoclino viene descritto come crocevia di traffici commerciali con i vari Stati del Mediterraneo ai tempi in cui lo zolfo rappresentava la vera ricchezza della Sicilia. I locali di Palazzo Montagna ospitavano la filiale di una società americana che operava nel vicino porto mentre di fronte, tra il palazzo ed il muraglione della stazione ferroviaria, c’era la casina del dazio. Tutt'attorno, a valle del costone del Caos, si espandevano raffinerie, fabbriche, altiforni e botteghe. Poi, a partire dagli anni 30 del Novecento, il commercio dello zolfo in Sicilia iniziò a vacillare fino al crollo avvenuto fra gli anni '50 e '60 che trasformò l'industria zolfifera siciliana nell’Ente Minerario Siciliano. Successivamente allo stabilimento Gottheil l’edificio passò in mano a diversi proprietari, tutti impegnati nell’attività di commercio dello zolfo: dapprima ai Cafisi e dal 1898 ai Montagna i cui eredi sono ancora custodi di antiche e nostalgiche memorie familiari. Le attività produttive che insistevano nella zona andarono in rovina e, verso la metà degli anni Settanta (periodo in cui anche i grandi colossi come la Montecatini, le Ferrovie dello Stato e le società del settore degli idrocarburi chiusero i battenti a  Porto Empedocle) l'intera area divenne terra di nessuno. In questo periodo iniziò il declino del Palazzo della famiglia Montagna, proprietaria dello stabile fino al 1985. Quando nella zona furono sbloccate alcune vecchie licenze edilizie, che consentirono a numerosi imprenditori locali di realizzare una vasta speculazione costruendo al posto delle antiche raffinerie enormi casermoni di cemento armato, apparve chiaro che il vecchio stabile, se recuperato e ristrutturato, avrebbe potuto essere funzionale per la rinascita economica e sociale dell'intero quartiere. A capirlo per primo fu l'Architetto empedoclino Salvatore Burgio, Assessore ai Lavori Pubblici durante la prima Amministrazione del Sindaco Firetto, il quale acquistò lo stabile. Successivamente il Palazzo, totalmente abbandonato nel corso degli ultimi 40 anni, nel 2005 fu individuato come bene monumentale ai sensi del DL 42 per le valenze architettoniche di grande rilievo e pregio. Tuttavia l’immobile versava in precarie condizioni strutturali fin dal momento dell’acquisto e necessitava, tra l’altro, anche di interventi funzionali alla salvaguardia della pubblica incolumità. Intanto l'ottocentesca costruzione, vincolata come bene culturale, andava messa in sicurezza e il proprietario si era trovato bloccato nelle opere di recupero in attesa, da parte della Soprintendenza, dell'approvazione dei progetti per la riqualificazione. La notte dell’8 aprile 2014 lo stesso proprietario, per rendere sicura  l’area, fece abbattere il palazzo e il braccio meccanico di una ruspa ne cancellò storia e ricordi nonostante la salvaguardia dei vincoli che, alla fine dei fatti,  non sono stati un importante alleato.


 Lungi da ossimori ormai anemici non possiamo tuttavia rassegnarci e pensare che la storia e le architetture dell’antico edificio possano divenire patrimonio destinato all’oblio. Gli abitanti di Porto Empedocle, che conoscono l’edificio anche con il nome di “u Casamentu”, gli assegnano oggi un passato di favola e fantasticano sulla presenza di fantasmi mentre solo i più anziani ne ricordano, anche se vagamente, le origini commerciali. La cultura popolare si é appropriata dei contenuti architettonici cogliendone volgarmente altri riferimenti ma allo stato, guardando le fotografie dell’edificio nella sua interezza, non possiamo negare con evidenza che sia stato depauperato il patrimonio architettonico e storico della cittadina  marinara. Il rammarico aumenta se ci soffermiamo a pensare che ovunque, oggi, vi sono edifici in cemento, e non certo in pietra, che hanno davvero offeso negli ultimi decenni i nostri centri storici. Per renderci conto della illogicità che sta alla base di tutto questo incomprensibile progetto di abbattimento  non ci soffermiamo sul modus operandi relativo all’accaduto ma sull’evento in sé. Indubbiamente la demolizione ha  rappresentato un gravissimo trauma arrecato alla memoria di Porto Empedocle che  non ha perso soltanto un bene materiale di interesse storico e architettonico ma anche un bene immateriale per il patrimonio culturale nonché per la testimonianza che ad esso è legata e che sarebbe stato meritevole,  invece, di massima valorizzazione.

Articolo pubblicato sul numero di Ottobre 2015 di “Porta di Ponte”